Mi rompo e mi ricompongo.
Pongo
11 martedì Ott 2016
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inMi rompo e mi ricompongo.
11 martedì Ott 2016
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in– Cazzo, cazzo… cazzo!!! –
…
– Non ti va’ mai bene niente, sei una stronza! –
Matteo tirò giù paio di bestemmie tra sé e sé e uscì di casa sbattendo la porta.
Caterina raccolse i vestiti che erano sparsi in terra, si asciugò il mocciolo che le era colato giù dal naso, prese in braccio Lunetta, la loro gatta bianca e nera, e si rimise a letto.
Avrebbe voluto andarsene via, uscire di casa prima di lui, ma non avrebbe saputo dove andare. Non aveva il becco di un quattrino e in quelle condizioni non avrebbe fatto molto strada.
Si tirò il lenzuolo fin sopra il naso e cercò di addormentarsi.
Sentiva che stavano arrivando i brividi. Li conosceva bene, sapeva che erano il primo sintomo della crisi d’astinenza. Da lì a poco avrebbe cominciato a sudare freddo. Lo stomaco si sarebbe rovesciato come un calzino, buttando fuori una sostanza verdastra che le avrebbe mozzato il respiro.
Voleva restare calma, ma il cervello correva come una scheggia tra lampi di luce accecante.
Si mise seduta, le ginocchia strette tra le braccia.
Lunetta la guardava in silenzio.
Cercò di cullarsi dondolando avanti e indietro.
Il letto sembrava sprofondare giù nel pavimento. Gli occhi le facevano male, le pupille erano di fuoco. La bocca come pezzi di vetro tagliente. Aveva sete ma non riusciva ad alzarsi.
Un terrore senza scampo s’imposessò di ogni singola parte del suo corpo.
Sul muro vedeva proiettate immagini di sangue e macchie nere che sembravano venire contro di lei.
Scivolò giù dal letto.
Strisciando raggiunse la cucina. Le mattonelle erano aguzze come sassi, le braccia le facevano male. Continuava a vomitare. Respirava umori acidi che salivano su dal naso come zaffate di lava.
Avrebbe voluto aprire il frigo, ma rimase immobile ai piedi della porta.
Sudava e tremava. Il corpo era scosso da un tremito violento che la privò anche dell’ultimo residuo di forza.
Avrebbe voluto un sorso d’acqua. Sentiva il liquido fresco scendere giù nella gola e arrivare nello stomaco. Non avrebbe vomitato più. Quel sorso d’acqua l’avrebbe salvata.
Si girò ancora un paio di volte su stessa. Aprì la porta. Voleva l’acqua, si alzò aggrappandosi alle sbarre di ferro.
Voleva l’acqua.
Stese le braccia, tirò su le gambe e volò giù.
09 domenica Ott 2016
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inCede,
è un fragore,
la testa irrompe
in questo cammino.
Di botto il silenzio
rende sorda la mia identità.
09 domenica Ott 2016
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inSui dubbi in equilibrio instabile
ho imparato a danzare
senza usare braccia e gambe.
Parole sottili, trasparenti come idee
che si aggrappano tenaci al cuore
e vincono feroci battaglie.
Il ritmo è nutrimento primigenio
del mio caduco tempo umano.
05 mercoledì Ott 2016
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inIl pavimento era ricoperto di piastrelle bianche e blu. Ceramica lucida, liscia piacevole al tatto.
Le aveva scelte Luca, dieci anni prima. E per quelle mattonelle avevano litigato tanto. Lei amava il legno, possibilmente grezzo, lui no.
Avevano discusso per una settimana o forse più. Alla fine Luca, in un pomeriggio in cui Sara era di turno in ospedale, era andato nel negozio di materiali edili e aveva comprato venti scatole di quelle mattonelle.
Sara era sdraiata a terra, con le braccia lungo il busto e le gambe leggermente divaricate. La guancia destra era schiacciata contro il pavimento e la bocca era piena di sangue. Aveva lo stesso sapore di quando da piccola si era fatta male cadendo dalla bicicletta e si era spaccata il labbro superiore: un gusto metallico.
Sentiva freddo, ma non riusciva a muoversi. Avvertiva il vicino del piano di sopra passare da un stanza all’altra con passi veloci. Poteva riconoscere il rumore delle ante dei mobili della cucina, l’acqua del rubinetto che rimbombava giù nelle tubature, il rumore sordo del tappeto contro la ringhiera.
Tutto era nitido come se i suoi sensi si fossero improvvisamente risvegliati. Poteva cogliere particolari a cui, fino a quel momento, non aveva mai fatto caso.
Era immobile, senza forze, eppure estremamente lucida. Immersa così tanto nella realtà da essere ben oltre il livello d’interpretazione a cui era abituata.
Era chiaro che lei poteva sentire gli altri ma nessuno avrebbe sentito lei.
La porta dell’ingresso si aprì. Riconobbe le scarpe sportive blu di Luca che si dirigevano verso di lei.
Si sentì trascinare per le mani. Il corpo strusciò per qualche metro sul pavimento freddo. I pantaloni scivolarono un po’ oltre la vita e parte del suo bacino rimase scoperto. Stranamente non sentiva più dolore e la sua mente si concentrava su quei particolari insignificanti che pure la ferivano ferocemente.
Luca trafficò per qualche minuto nei cassetti del mobile all’ingresso, poi s’inginocchiò vicino a lei e legò le mani con una corda. Lei sentiva i polsi stretti come in un morsa, ma non riusciva a ribellarsi. Non aveva più forza. Il sangue continuva ad uscire dalla bocca e da un lato della testa. Era tutta sporca, sentiva sempre più freddo. Luca si alzò in piedi. Le poggiò un piede sul sedere e schiacciò con forza sull’osso sacro. Sentiva che stava bisbigliando con rabbia delle parole ma non riuscì a coglierne il senso.
Poi si inginocchiò di nuovo a fianco a lei, ma dall’altro lato del corpo, e le legò anche le caviglie.
Rimase legata sul pavimento davanti alla porta d’ingresso ancora per qualche minuto, poi sentì la testa contro la plastica liscia di un sacco per l’immondizia.
Faticava a respirare, quel poco di fiato che le era rimasto rimaneva incollato sui bordi del sacco come un vapore appiccicoso che non dava nessun sollievo.
Prima di perdere i sensi, sentì il suo corpo che scivolava giù, forse in un buco, per parecchi metri.
L’ultimo eco che arrivò alle sue orecchie fu la voce di Luca che gridava oscenità contro di lei.
Stava morendo uccisa da chi per anni l’aveva chiamata “amore”!
C.M.
05 mercoledì Ott 2016
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inVomito, il terrore sale a ondate dallo stomaco. Non cibo, non succhi gastrici, umori digestivi, ma ricordi come mostri dalle bocche enormi e gli occhi sgranati iniettati di sangue.
Il respiro congelato. L’aria che cambia consistenza e non passa più dai polmoni, non arriva al naso come ossigeno ristoratore che colora il sangue di rosso e nutre i tessuti.
“Aiuto, aiuto… aiutooo!”
Ma è la voce? “È la mia voce?!?”
Sto morendo. “È così che si muore?!?”
Non vedo nessuno. Sento il vento ma è come se fosse lontano staccato dalla realtà.
Sento del morbido sotto la testa. Il cuore è freddo, batte veloce e fa male. Male come un infarto, male da morire.
Mi tocco il collo. Vorrei strappare quel grumo malevolo che m’impedisce di respirare.
“Miriam?!?”
…
Mani sulla testa, sulle spalle, sul petto.
Mi tirano su, in piedi. Le gambe s’afflosciano come due sacchi di sabbia mezzi vuoti.
Qualcuno mi stringe a sé, un braccio sul collo l’altro dietro la schiena.
Mi aiutano a camminare. Contano i passi, accompagnano il respiro.
Una voce riporta la quiete, per oggi il tempo della morte si è fermato e sento di nuovo il mio cuore che batte calmo.
03 lunedì Ott 2016
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inLa superficialità, il rimanere sulla superficie.
E’ paura, stanchezza, incapacità?!?
Oppure l’insieme di tutte queste cose?
Quante cose vengono nascoste per evitare di sentire il dolore?
Si rimane seduti sulla crosta perché il respiro viene risucchiato da una forza, che pare venire dall’esterno, e si rinuncia a fare “un buco” per raggiungere lo strato più profondo.
La stanchezza prende il sopravvento, l’inettitudine porta a battere strade conosciute perché più comodo.
Non basta una sola “illuminazione”, è tutto il cammino che deve essere carico di quella struggente tensione, di quella passione profonda che rende il percorso autentico.
“Autentico” che risponde ad una reale intensità interiore.
La risonanza di un’eco che viene da lontano.
E se non ci fosse niente da far risuonare?
E se tutto questo fosse solo un ripiegarsi su se stessi? Un vago tentativo, mal riuscito, di cercare qualcosa che è altro da sé ma che sostituisce l’impegno quotidiano con una sfumatura appena un po’ dolce di gratificazione?!?
Sarebbe così brutto chiudere la partita, accorgendosi solo alla fine di non aver mai giocato!
01 sabato Ott 2016
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inL’ultimo respiro, greve, doloroso, carico del peso di una vita intera.
La flebo che gocciola lenta, il rumore del monitor, le mani come due tronchi secchi sul lenzuolo candido.
È la fine della vita. Niente di romantico. Le luci fredde della stanza, il vetro oscurato dalle veneziane grigie, i passi veloci delle infermiere che sembrano quasi volare tra un letto ed un altro, appese tra la vita – la loro – e la morte.
Luana era lì, seduta accanto al letto di Margherita, sua madre. Quella donna dal nome soave e dalla pelle di alabastro, che per tutta la vita aveva amato incondizionatamente senza preoccuparsi di riavere niente in cambio.
Il suo sorriso spontaneo aveva illuminato anche le giornate più difficili. La sua eleganza spiccava tra le altre donne, rendendola speciale. Lei era sempre stata fiera di sua madre ed insieme erano state felici, anche quando un male senza appello aveva strappato Giulio, padre e marito, via da questa vita.
Margherita era intelligente, quel tipo di persona curiosa e attenta. Sempre pronta a cogliere i segnali della vita, anche quelli invisibili allo sguardo degli altri.
Aveva sempre un libro nella borsa e leggeva di continuo . Uno dei primi ricordi di sua madre, era lei in piedi davanti ai fornelli con un cucchiaio nella mano e un libro nell’altra. Leggeva e condivideva. L’amore per le parole era il collante della loro vita. Favole, racconti, grandi romanzi, uscivano dalla bocca della madre come un cibo ristoratore. Elemento fondamentale per la crescita di quella bambina che si stava preparando a diventare un’adulta. E che avrebbe amato i libri nello stesso modo ancestrale e carico di passione di sua madre.
Margherita era profumata, come i campi a primavera, quando si coprono di teneri fiori.
Amava i profumi e usava spruzzare una nuvola di acqua di Colonia davanti al suo viso per poi infilarsi rapidamente in quel piccolo vapore profumato e bearsi di quell’istante solo suo. Era quella la felicità, un piccolo pezzo di mondo, che disegnava un sorriso sulle sue labbra.
Il volto di Margherita era contratto in una smorfia di sofferenza. Il respiro come un rantolo dai polmoni ormai esausti. Non era rimasto molto dell’intima felicità che l’aveva accompagnata nella vita.
Luana si alzò dal capezzale della madre, prese la borsa dall’armadietto verde vicino alla porta, e tirò fuori un piccolo flacone di vetro giallo. Lo alzò a pochi centimetri dal volto della madre e spruzzò un po’ di acqua di Colonia nell’aria.
Una piccola nuvola di profumo avvolse il volto di Margherita e il suo ultimo respiro fu accompagnato da un sorriso.
C.M.